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Recensione
I re della roccia sotto una campana di vetro
Under the king of stone - Space Paranoids
a cura di Simone Garro
Gli Space Paranoids si presentano come una valida alternativa al rock & heavy, da qualche anno genere ritornato di moda nel cuneese.
Primo disco ricco di contaminazioni per gli Space Paranoids, che trasportano le atmosfere sabbiose e torride dello stoner tra le boscose montagne piemontesi, condendo il tutto con influenze heavy, classic rock, psichedeliche, ma anche con alcune sfumature funky, soprattutto nelle trame ritmiche.
Le sette canzoni racchiuse in “Under the King of Stone” brillano per potenza e fluidità, grazie soprattutto al buon livello dei quattro musicisti. La solidità e la sicurezza nell’uso dei fondamentali ripaga alla grande la band, così come la buona conoscenza dei capisaldi del genere.
La scelta di lavorare con una sola chitarra (ormai condizione sempre più frequente per molte rock band, anche Cuneesi) alleggerisce piacevolmente il muro distorto dei riff più aggressivi, lasciando spazio per gli altri strumenti senza perdere potenza in maniera eccessiva, e creando i presupposti ideali per le alternanze con gli arpeggi soft e con le melodie più ambientali. L’assenza (salvo poche sovraincisioni) di una seconda chitarra che esegua la parte di accompagnamento durante i soli è compensata abilmente grazie alla natura noise di buona parte dei soli stessi, e dall’ottimo lavoro della sessione ritmica. Il basso ben si destreggia tra i vasti spazi lasciati liberi, con parti ricche e movimentate che si espandono per tutta la lunghezza del manico. I patterns di batteria sono freschi e vivaci; all’efficace linearità della maggior parte delle ritmiche vengono contrapposti accenti e passaggi interessanti, con un buon uso delle pause e delle ghost note.
Anche il cantante si esprime su ottimi livelli, il timbro è caldo e personale e le linee vocali sono accattivanti. La natura “indie” della voce la rende particolarmente versatile, qualità importante visto i notevoli cambi di dinamica che contraddistinguono praticamente tutto l’album.
Per quanto riguarda la produzione, la band ha fatto la scelta coraggiosa di esordire con un disco registrato in analogico e in presa diretta (esclusi voce e assoli): il risultato è decisamente convincente, ottima l’esecuzione e l’intesa, e gli strumenti ne escono ben amalgamati.
Anche la voce è ben inserita nella base strumentale, personalmente trovo azzeccata la decisione di lasciare il cantato a livello degli altri strumenti invece di isolarlo una spanna sopra tutto il resto.
Quello che invece non ho apprezzato è il tipo di equalizzazione generale: nel mix finale il disco suona ovattato, impastato, come se il suono provenisse da dietro una campana di vetro. Dal mio punto di vista un peccato, perché questo toglie profondità a tutti gli strumenti, limitando le dinamiche e smorzando gli attacchi dei riff pesanti. Questo problema, molto evidente nelle prime due tracce, viene parzialmente risolto con lo scorrere dei brani, per poi ripresentarsi verso metà disco. Questo può dipendere dal fatto che alcuni brani sono stati registrati in sessioni diverse e distanti temporalmente tra loro.
“Under the King of Stone” rimane comunque un prodotto decisamente interessante, la grande passione del gruppo traspare dall’energia profusa nella creazione di brani dal sapore intenso e genuino, dal suono classico e comunque fresco allo stesso tempo. Un buon inizio per un gruppo che promette bene e che sembra destinato a crescere ancora.
Da ascoltare: Under the king of stone, Black salamander