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Recensione
Cani da vinile
Finalmente i Cani Sciorrì calano sulla terra del vinile tracciando nella plastica rossa solchi sporchi ma cattivi come certi brutti pensieri di patologica ispirazione. Nove pezzi sulle due facce della stessa ruvida medaglia che vanno a santificare nel modo migliore il vulcanico sound del Trio Cane.
«Chissà se i morti cantano?», chiede la voce di Scer, da lontano. Sgolata martoriata sacrificata, si direbbe, alle scelte stilistiche che vogliono la musica in primo piano. Suoni duri, sporchi ma affilati come lame da macellaio. Giri semplici ma trascinanti, arricchiti da superbi dettagli apprezzabili solo dopo ripetuti ascolti, magari ad occhi chiusi. Attinti a man bassa dal garage rock migliore che i Cani, però, vogliono riproporre col gusto distorto dell’heavy migliore. Quasi come se i Metallica volessero coverizzare Jon Spencer.
Ma c’è di più.
One Dimensional Man impastati con Hives, cucinati nel microonde alla maniera Girls VS Boys e serviti con voïvodiano contorno. Poi c’è quell’italianità da periferia che affiora in certi passaggi da poliziesco anni settanta: tipo Foss Angeles calibro nove con i Cheetah Chrome Motherfuckers che fanno da comparse e poi, anche, da scomparse.
In realtà il merito dei Cani Sciorrì è stato quello di mettere insieme vari ingredienti per ottenere un piatto unico, dallo stile innovativo, pur senza inventare nulla. Dico poco, è l’arte dei più grandi. Un suono che fila liscio, un brano dopo l’altro verso un film di immagini, come vorrebbe suggerire la confezione, e che rende il Trio Cane una realtà vera e consistente della musica alternativa.
“Free Rock”, “Dame Lunghe” e “Nudo vestito di bianco” sono tre titoli da citare. Quelli che sanno fare male per davvero. Quelli che vorrei ascoltare mentre leggo la biografia di Ted Bundy. Quelli che avrei consigliato a Ted Bundy mentre faceva le cose che sarebbero finite sulla sua biografia.
Insomma, la soundtrack per viaggiare all’Inferno.